Comunicazione inefficace

Per capirci meglio: credo che sia capitato a chiunque di perdere l’attimo giusto per poter pronunciare quella espressione, quel modo di dire o semplicemente quella parola in circostanze particolarmente emozionanti, in momenti concitati o magari mentre si discute, che solo in un secondo momento, a mente fredda, si materializza nei nostri pensieri ?!?…Ecco!…A me succede spesso e con frequenze sempre maggiori…
Mi accorgo che la mia comunicazione non è efficace e di non utilizzare quasi mai durante una conversazione le parole più pertinenti e di sentirmi quindi uno stupido incapace di esprimersi adeguatamente.
In qualsiasi ambito: lavoro, famiglia, amicizie, contesti formali…provo a parlare più lentamente possibile per dare il tempo alla mia mente di ricercare “la parola giusta” in una immaginaria immensa sala strapiena di pile di dizionari impolverati che ripetono nelle pagine sempre gli stessi lemmi. Così descrivo la mia attività di ricerca mentre parlo ed è quindi facilmente presumibile come questa tortura mi impedisca di esporre serenamente le mie opinioni, i miei pensieri e preferisca il silenzio e l’ascolto degli altri.
Nel tempo ho capito che la scrittura rappresenta il miglior strumento di comunicazione che mi permette di esprimere le mie opinioni. Il suono delle mie parole, della mia voce non mi appartengono. Riguardano una persona inetta, flemmatica e noiosa. Invece io penso velocemente usando una voce che riconosco mia e che non si traduce mai in un suono emesso. Risuona confinata nella mia testa.
Rifiuto i social più moderni che ci costringono a comunicare dal vivo in tempi ristretti provando ad essere il più possibile efficaci. Si tralascia il contenuto, la comprensibilità e si pensa esclusivamente alla migliore strategia di marketing da applicare per aumentare il numero dei propri seguaci. Siamo diventati dei frenetici venditori di fuffa. Non siamo quello che diciamo, ma come lo diciamo…
Questo mondo, indipendentemente dalla mia palese inadeguatezza comunicativa, non mi attira. Rimango sempre affascinato dagli oratori dal linguaggio fluente e forbito che lanciano tanti spunti di riflessione per menti che non sono più avvezze al ragionamento.
Mi sento anche a disagio quando utilizzo applicazioni di messaggistica istantanea. Spesso mentre scrivo mi blocco, poi trovo un errore, cancello, poi cambio altre parole e dopo finalmente clicco su invio… Praticamente questo supplizio costituito da cancellazioni, riprese, re-inizi riguardano anche le registrazioni vocali che sono soggette a una mia revisione più accurata.
In pratica con me perde valore la definizione stessa dello strumento.
Mi chiedo spesso come facciano gli altri (non tutti) che possiedono una certa proprietà di linguaggio, che danno voce ai loro pensieri e di conseguenza fanno la differenza. Io e quelli come me siamo solo destinati a seguire come dei fedeli cagnolini le opere degli altri, fantasticando di poter essere noi un giorno.
Spesso mi sono domandato quali potessero essere le cause del mio problema ipotizzando che dipendessero dalla mia insicurezza che condiziona la mia intera vita.
Insicurezza generata dalla prepotenza e indifferenza che hanno segnato la mia giovinezza.
Per adesso scrivo ma sogno un giorno di fare un discorso bello e sincero su un pulpito con tante persone all’ascolto senza provare nessun tipo di paura.

Dubbi esistenziali: …io dov’ero?

Nel processo di miglioramento che ho iniziato e che riguarda quasi tutti gli ambiti della mia vita, mi soffermo ad analizzare le cose (fatte, dette) delle persone che provengono dal mio stesso retroterra.
Mi domando: “Ma…io dov’ero? Perché ho perso certe esperienze? Come faccio a non conoscere fatti o cose delle quali tutti parlano?
Questo processo mentale parte quando amici parlano per esempio di una canzone, di un tormentone, di un gioco, un fatto, un aneddoto fissati nel passato di cui tutti sanno, di cui tutti parlano tranne me. Perché?
Forse non c’ero. Boh
Ma quel non essere non si riferisce alla presenza fisica in un luogo ma alla mia condizione di totale assenza nella vita. Un non vivere fluttuante lontano dalle cose comuni e alimentato dalle cose del proprio mondo.
Il mio atteggiamento da bambino solitario poco incline al rapportarsi con gli altri mi ha permesso di creare un punto di vista unico e diverso dagli altri che ne condividevano l’essenza.
Al mio dubbio esistenziale potrei rispondere che ero nella realtà costruita da me e costituita da ciò che osservavo. Questa mia diversità mi portava a preferire la lettura dell’Ivanhoe di Walter Scott in estate al posto di giocare a pallone in strada,
sostituire la filatelia alla collezione delle figurine Panini, evitare di richiedere scarpe e vestiti alla moda privilegiando un abbigliamento più classico e retrò.
Parlavo una lingua diversa dal resto dei miei coetanei…
Un altro fattore che ha contribuito ad ampliare il gap è stata la generazione dei miei genitori: nati nell’immediato dopo guerra, avevano ricevuto una educazione rigida che addestrava al sacrificio e al senso pratico e non dava spazio alle futilità. Erano sempre tra i genitori più grandi e non possedevano ingenuamente gli strumenti per cogliere quelle piccolezze che all’interno di una classe, di un gruppo parrocchiale influenzavano la condivisione e l’integrazione in tenera età.
Oggi realizzo che mancano nella mia giovinezza quei tratti tipici, distintivi che tanto hanno caratterizzato quella dei miei coetanei.
Non ero mai sul pezzo. Non stavo sulla stessa lunghezza d’onda dei miei amici.
Percepivo le differenze, non mi sentivo a mio agio.
Quelle differenze apparenti avrebbero provocato in un secondo momento un atteggiamento discriminatorio degli altri che si sarebbe tradotto in violenze fisiche e verbali verso di me..
Ero diverso, ergo non capito, dovevo soccombere…
Dannazione…ma io dov’ero???

Bullizzato (?)

Impaurito dal mondo, spesso rimanevo solo a casa, mogio sul mio letto, quando invece i miei coetanei gareggiavano a chi creasse più scompiglio nel quartiere.
Ero un ragazzino sfigato degli anni ’90 che aveva paura degli altri.
Quante volte mi sarà successo di rimanere a casa e mio padre mi spronava a vestirmi e stare con gli altri. Quanta ansia. Avevo paura di essere preso in giro, di essere giudicato. Per me era uno shock ricevere insulti e violenze. Provavo a difendermi ma davanti a tale crudeltà e tracotanza rimanevo attonito. Non capivo le ragioni. Era tutto molto fine a se stesso. Spesso ritornavo a casa completamente scosso e agitato con l’idea che avrei dovuto reagire, avrei dovuto far sentire la mia voce. In realtà l’istinto di sopravvivenza mi spingeva a evitare i luoghi del misfatto e quelli frequentati dai miei carnefici.
Prima non si parlava di bullismo…ed era pratica alquanto comune e per certi versi giustificata che il più forte in ogni contesto dovesse prendere sopravvento sul più debole. Rispetto a oggi certi comportamenti sociali funzionavano diversamente, specialmente per le limitate capacità di diffusione delle notizie. Un bullo di oggi può contare sui social per ottenere una certa popolarità che lo investe del titolo di re del branco o addirittura re del web se le situazioni prendono una strana e brutta piega. Prima il campo di azione del bulletto e la diffusione delle sue malefatte era limitato al quartiere di paese. Non si immortalavano questi episodi violenti come viene fatto oggi. Oggi alla prima baruffa tutti i ragazzi sono pronti con il cellulare a riprendere questo spettacolo deplorevole. Nessuno interviene più a interrompere lo scontro. Prima c’era maggiore coscienza. Si comprendevano i limiti e si dava maggiore importanza ai rapporti umani.
Noi sfigati degli anni ’90 dovremmo ringraziare probabilmente l’arretratezza tecnologica del tempo se siamo riusciti a razionalizzare questi eventi traumatici e siamo riusciti ad andare avanti sfuggendo alla sorte nefasta di molti ragazzi bullizzati di oggi giorno. Forse siamo salvi proprio per quello. La poca visibilità del nostro bulletto o dei nostri castighi ci ha salvato. Abbiamo evitato che anche la rete potesse infierire su di noi.
Durante le scuole medie capitava tra noi ragazzi di prendere in giro le nostre madri e sorelle. Era un modo goliardico per passare del tempo. Si raccontavano storielle, si intonavano canzoncine. Tutto sembrava al quanto democratico. Con l’avanzare del tempo però si consolidava una certa ostilità nei miei confronti. Proprio a partire da quelli che reputavo amici avvenne una campagna contro di me. Non credo ci fosse l’intenzione di prendermi di mira anche perché non c’erano validi motivi però su di me questo sbeffeggiamento aveva un effetto rilevante perché mi offendevo parecchio e più provavo a difendere me e quindi mia sorella da quelle accuse infondate, più il fenomeno diventava ostile…
Fu inventato un acronimo che riguardava mia sorella e che mi veniva rivolto per offendermi. Dalla classe questo fenomeno iniziò a espandersi a macchia d’olio.
Compagni di classe, di gioco, ragazzini della chiesa, sconosciuti, quando mi vedevano pronunciavano a voce alta quell’acronimo, o canticchiavano un motivetto.
Qualcuno addirittura scriveva sui muri. Dopo aver tentato tante volte di placare questi sfottò alla fine decisi di accettare la mia condizione di vittima sacrificale con la speranza che da grande tutto ciò si sarebbe risolto.
Anche quando tutto sembrava finito, ho convissuto per anni con la paura di essere preso in giro e di trovare in giro i miei carnefici.
Adesso tutto questo mi sembra molto distante ma mi accorgo che ancora oggi porto con me gli strascichi di quella brutta esperienza. Sono estremamente diffidente nei confronti del prossimo. Ricerco consenso sociale. Preferisco non esprimere il mio parere perché non voglio generare ostilità.
Penso che magari senza quel periodo sarei stato più sgombro mentalmente dalle strutture che mi hanno ingabbiato.
Mi sarei sentito più libero…sarei stato più sincero…e soprattutto avrei avuto coraggio di esprimermi…
Abbiamo il dovere di dare la giusta risonanza al fenomeno, segnalare una violenza, esortare i più giovani e i leoni da tastiera a sensibilizzare con il concetto di empatia, difendere il più debole, educare il bullo.
Proteggiamo la vita…